Nell’articolo precedente abbiamo introdotto il fenomeno dei viaggi cosiddetti “di Turismo responsabile” italiani verso il sud del pianeta, partiti nel nostro paese coi primi anni’90. 

Nati in maniera pionieristica soprattutto grazie a RAM di Genova, e più tardi sviluppati anche da una manciata di altri operatori riuniti nell’Associazione Italiana Turismo Responsabile (AITR), i migliori tra essi comportano un elemento diverso dal solito, mai assurto ad ingrediente del turismo organizzato, quasi un’eresia: l’incontro con la gente del posto. Cosa si cerca di realizzare? Semplicemente uno scambio autentico in corso di viaggio. 

E’ questa la “dimensione umana” di cui ha sempre parlato RAM, capostipite del TR italiano? Facciamo una piccola premessa "storica". Mentre il turismo italiano del dopoguerra è di tipo classico, le cose cambiano con “Avventure nel Mondo“, il primo operatore alternativo. Anche se il motivo cruciale di Avventure, la molla per cui la gente si iscrive a quei viaggi, resta il puro divertimento. A tratti, puro edonismo. Avventure è alternativo in alcune modalità, non negli obiettivi. La differenza con ciò che verrà dopo, ossia la nicchia del "Turismo responsabile”, sta oltre che in varie modalità anche nei fini. In un incontro voluto e cercato per approfondire i temi del luogo che andiamo a vedere. In una solidarietà spesso concretizzata.  

C'è inoltre continuità. Nei migliori viaggi del TR italiano non si nega il divertimento ma si stabiliscono relazioni durature con le comunità locali, e si finanziano i loro progetti. In questi viaggi c'è insomma molto di più, qualcosa di relazionale che restituisce un senso diverso all‘esercizio. Una dimensione solidale, concreta. Un elemento che non solo sgrava le coscienze dei turisti (critica peraltro a volte fondata), ma retribuisce con fondi reali la gente del posto, che offre in cambio una certa disponibilità ad accompagnarci nella propria realtà. Cosa che nella maggior parte del mondo è ancora del tutto possibile, se solo vogliamo permettercelo. “I viaggi di RAM” - recita la pubblicistica dell’operatore, di cui il sottoscritto è stato il fondatore, ma che mi guarderei dal citare non fosse, pianamente, storia – “accanto a cultura, naturalismo e ad un pò d'avventura, sono costruiti per rappresentare occasioni d'incontro con la gente del posto”. Incontro che spesso sarà accompagnato da forme di cooperazione con le realtà visitate. In particolare, “nostri referenti locali sono gruppi che svolgono un lavoro sociale degno di nota. Ci appoggiamo ad organismi di sviluppo sociale, a cooperative, associazioni, ONG, realtà di artigiani e contadini vicini ai circuiti del Fair Trade internazionale, ad amici spesso non operanti professionalmente nel turismo, ma che hanno a cuore le sorti del loro paese. Il referente è generalmente un gruppo, legalmente registrato od informale, che fa da snodo per le visite dei villaggi o delle città dove è impegnato. Spesso ne finanziamo i progetti”.

Munduk, Bali, Indonesia. Gruppo RAM durante un trekking classico nelle risaie di montagna. Foto Renzo Garrone

Ovviamente diverrà presto fondamentale, nella crescita di questo genere di viaggi, anche l’apporto di guide turistiche del luogo che, liberate da certe abituali pastoie del mestiere, aiutino veramente i visitatori ad entrare più in profondità nelle realtà visitate. Non solo monumenti insomma, ma un’esperienza, per quanto limitata, di cosa sia vita reale delle persone del posto. Spesso si mangia in famiglia, quando possibile ci si dorme pure. Il punto d’arrivo di queste forme di Turismo Responsabile, che chiameremo “d’incontro”, diverrà il “turismo di comunità”, una nuova pratica che restituisce alla gente del posto la doverosa sovranità su questa attività economico-culturale.
Le guide locali diventano così essenziali compagni di viaggio, mediatori culturali, interpreti. Passano coi turisti l’intera giornata, non si limitano al compitino tra 9 e le 17. Nel TR italiano anche l’accompagnatore ha questo ruolo. Alcuni operatori scelgono accompagnatori italiani che poi interagiscano con le guide locali, traducendole nel corso dei viaggi di gruppo (l’inglese parlato dagli italiani è ancora piuttosto inadeguato, parlo dei 50/60 enni, anche se le giovani generazioni sono migliorate molto). Altri operatori, sia per risparmiare sia perchè in alcune zone trovarne è più semplice, cercano per queste professionalità italiani residenti all’estero o persone del luogo che sappiano l’italiano. L’obiettivo, comunque, è identico. Una buona mediazione culturale.

Ma per calarsi nelle realtà locali e cercar di capire, facendo domande, osservando, ascoltando, le cose bisogna prepararle. Si tratta di un turismo diverso perchè buona parte dell’impostazione del viaggio cambia di conseguenza. Non ci si misura più solo con templi, escursioni, musei, negozi e ristoranti. Compaiono altre tecniche, servono altre soluzioni. Bisogna liberare del tempo da dedicare all’incontro – e gli incontri vanno preparati con cura. Si tratta di entrare nelle vite della gente del posto anche se magari solo per mezza giornata o per lo spazio di un’ora, può essere cosa delicata ma la soddisfazione che ne deriva è notevole. Ormai lo chiamano anche turismo esperenziale, nella definizione lanciata da un paio di grandi portali internazionali del web.

Ma è un tempo che, se ben gestito, può avere un valore dirompente. Cosa dirsi tra persone di culture lontane, diverse? E quante cose si possono approfondire in un‘ora se vengono poste le domande giuste? Sicuramente, un turismo così organizzato ha un impatto diverso (per non parlare dell‘impatto economico, che infatti si tratta di calibrare adeguatamente, di cui mi occupo in un altro prossimo articolo). Significativi, infine, sono anche gli incontri che capitano per caso, e che si approfondiscono in corso d’opera. Nei viaggi del TR deve esserci spazio anche per questo. Lo scopo resta sempre lo stesso, comunque: cercare di entrare davvero, con un minimo di continuità, con spirito di cooperazione, con umiltà e concedendosi il tempo necessario, nella realtà del posto. “Localmente”, continua la pubblicistica di RAM, “le varie interazioni si svolgono con traduzione simultanea, a cura del mediatore culturale. Si utilizzano guide locali formate all’incontro con la società civile del posto, oltre che alla visita alle attrazioni classiche. Ed infine, nel quadro di una adeguata strategia di preparazione al viaggio, i viaggi vengono anche preparati con riunioni apposite tra i partecipanti e l’organizzatore, che si svolgono prima della partenza”.

Vedendola da un altro punto di vista questa dimensione di insistita esposizione alla realtà, che caratterizza i viaggi-incontro del TR italiano, mi sembra antitetica non tanto all’evasione tout court (non è lo svago l’antitesi del reale, qui nessuno nega il divertimento), quanto al turismo della virtualità, tipo Parchi a tema o monumenti ricreati sulle navi da crociera. Il turismo etno-responsabile di cui ci stiamo occupando mi sembra l’antitesi del finto. E nella sua accezione verso i paesi che una volta si dicevano in via di sviluppo, è antitetico pure ai villaggi turistici o alle crociere, nella misura in cui tali vacanze si consumano racchiuse in una ‘bolla’ che isola dalla società circostante.

Etno-turismo
La molla di questo etno-turismo è certamente, per i più, la ricerca di una dimensione finora poco conosciuta, emozionante ed autentica. Anche se alcuni partecipanti viziati si stufano presto del nuovo giocattolo e realizzano in pochi giorni quanto manchino loro le comodità. Quanto abbiano bisogno di riposare e recuperare dopo un anno di tensioni, piuttosto che di approfondire il contesto.
D'altra parte i turisti responsabili spesso responsabili non lo sono ancora. O comunque hanno dei limiti. Che derivano da come si viva tutti i giorni nella propria realtà. Non si cambia in un giorno poichè che stai facendo un viaggio. Sono i rischi di una formula che prevede non solo una certa maturità di organizzatori e partecipanti, ma anche che l’impegno sia sapientemente miscelato con lo svago – perchè di turismo pur sempre si tratta. Del resto, come ironicamente scrive Bazzanella (2006), parlando di una partecipante del Tour Operator RAM che poco aveva capito del suo viaggio, “persone come lei sono la prova vivente che il turismo responsabile non può fare miracoli”.

Tra le critiche più percettive all’attuazione del fenomeno troviamo ancora quelle di Aime (sempre 2005), in relazione ad alcuni viaggi da lui effettuati con la ong CISV. Sul tema dei turisti e dell’organizzazione dell’incontro, riferendosi alle ong che visitano “i progetti”, come si dice in gergo, Aime ravvisava modalità forzate, comportamenti rigidi, distanze. Il fatto che i due interlocutori (cioè i viaggiatori e la gente del posto) fossero da un lato espressione di realtà di cooperazione, e dall’altro persone facenti parte (o beneficiari) di istituzioni locali, induceva un certo alone di ufficialità. Piuttosto che di incontro spontaneo, annotava Aime, si trattava di due ambiti professionali che venivano a contatto, e questo era ben poco ludico e piacevole.
Pur riconoscendo che questo può succedere, dico che c’è modo e modo di organizzare e gestire gli incontri. Nelle delegazioni solidaristiche che andavano a Cuba e in Nicaragua un paio di decenni orsono a sostenere progetti, ma anche in India e in Bangladesh o in Africa con scopi affini, si convergeva sul lavoro comune da sostenere, non che ci fosse un gran lavoro di fino in termini psicologici riguardo alle relazioni con la gente del posto. Il fine era precipuamente solidaristico, stava ai singoli andare eventualmente oltre, sul piano relazionale.

 

Hemis Supkachan, Ladakh, India Himalayana, agosto 2014.Viaggiatori RAM con T.T. Namgail, referente locale dell'operatore. Il rapporto tra giovani e anziani rappresenta uno degli elementi valoriali di un certo tipo di viaggi. Foto Renzo Garrone

Un buon viaggio deve essere vario, affascinante, e gli incontri tutto meno che farraginosi

Chi scrive non ha mai propugnato, quale sinonimo di Turismo Responsabile, l’idea dei viaggi solidali tout court, che francamente mi starebbero stretti come immagino ad Aime. Cui, invece, andava e continua ad andare tutta la mia solidarietà: principalmente perché un buon viaggio deve essere vario, affascinante, e tutto meno che farraginoso (frivolo è stupido, ma non deve risultare nemmeno palloso). Con il dovuto rispetto per le operazioni di solidarietà, in secondo luogo, sottolineo che turismo solidale purtroppo non significa automaticamente turismo di qualità. Il turista ‘solidale’ può non saper viaggiare, e l’organismo che promuove il viaggio può qualche volta rivelarsi inadeguato nell’organizzazione, nella logistica, nell’effettivo know how sul campo. Il turismo ha le sue regole, bisogna crescere professionalmente e capirlo; bravi operatori e spesso anche bravi turisti non ci si improvvisa, sono necessari formazione ed un esercizio di umiltà: a viaggiare bene bisogna imparare.

Lo spirito che personalmente cerco di infondere nei gruppi che accompagno (uno dei lavori in cui continuo ad impegnarmi varie volte l’anno, ormai dal lontano 1984), e che cerco di imprimere alle relazioni che intesso in corso di viaggio, è piuttosto volto ad una dimensione conviviale dell’incontro (l’accezione in cui uso questo termine è quella di Illich, 1993, che sembra considerare tali prassi relazionali come una sorta di antidoto all’ansia di sviluppo). Attraverso l’incontro in corso di viaggio, da solo o in gruppo, cerco di stabilire un flusso di vero interesse reciproco. In primis, la cosa deve diventare divertente per tutti: un’ora curiosa, insolita, da ricordare, che apra qualche finestra su un pezzo di mondo che non guardiamo mai: sul come viva l’altro da noi.
Quanto ai modi del viaggio, scriveva ancora Aime: “(…) le associazioni di TR propongono, in maniera organizzata e con il supporto di una maggiore sensibilizzazione, lo stile di viaggio dei turisti che si muovono in autonomia, ma con budget ridotti: si è cercato cioè di organizzare il modello anarchico e individuale tipico dei viaggiatori globetrotter” (Aime, 2005).

Diciamo che è così, anche se esposto in questo modo l’esercizio non pare affatto edificante, suggerendo scopiazzature mal riuscite. Ma il punto è se questo “supporto di una maggiore sensibilizzazione” esista sul serio. Sia poiché effettivamente non tutti gli organizzatori di viaggio si comportano nello stesso modo, e se non e’ presente una adeguata mediazione culturale possiamo dire ciao alle valenze positive di un incontro. Sia perché i turisti a volte sono un terno al lotto, a volte magnifici, a volte capricciosi, sulla difensiva,ancora inadatti a iniziative di questo genere.
Un aspetto indispensabile della qualità del viaggio, sia per il turista che per l’ospitante, è costituito appunto dalla mediazione culturale. Un buon accompagnatore (uso qui i termini mediatore culturale, tour leader, capogruppo quali sinonimi) tiene in mano le redini del viaggio ed oltre a facilitare continuamente la comunicazione, interviene anche ad orientare con saggezza le cose, quando serve, e a limitare al massimo i danni eventuali. Questione di intelligenza, di sensibilità, e di preparazione. Mi riferisco, voglio sottolinearlo, sia al tour leader italiano che parte e viaggia con il gruppo, ma anche al tour leader locale, o espatriato che sia, al quale però sia stata offerta una qualche formazione all’interculturalità.
Ovviamente, pure i turisti indipendenti possono possedere questo know-how, ma è più frequente non ce l’abbiano. Per il semplice fatto che, nei gruppi, queste cose il mediatore le impara per lavoro, mentre la stessa applicazione non è richiesta all’individuo che viaggia per conto suo, che non è detto abbia il pallino dell’intercultura, e che magari sul posto non c’è mai stato.
Un altro elemento peculiare del turismo responsabile è poi la preparazione (si fanno riunioni precedenti e verifiche in corso e alla fine del viaggio). Ma la differenza-chiave rispetto alle modalità solite dei backpackers di cui parla Aime sta, a mio avviso, nell’intrattenere con i partners a destinazione un genere di relazioni cui i citati backpackers raramente accedono, o a cui non accedono affatto. Tali relazioni per funzionare devono prevedere dei momenti organizzati, e l’incontro avere un orientamento abbastanza preciso; la scommessa consiste proprio nel fatto che, nonostante l’organizzazione, l’incontro riesca a conservare la necessaria spontaneità - una interazione di viaggio non può svolgersi nello stile di un meeting di lavoro. Ma temere che averlo organizzato renda formale un incontro è come temere che una festa possa fallire avendo pensato con accuratezza agli invitati, al luogo, alla musica, all’illuminazione, al cibo e a cosa fare – insomma perché ci sono stati dei preparativi. Con evidenza, così non è. Forse accade per un certo tipo d’incontro un po’ come proprio nella musica: geni a parte, improvvisa bene chi sa suonare, chi la musica la conosce e suona spesso. Se i viaggi non riescono, forse troppi musicisti-chiave hanno steccato la loro partitura.

Malintesi ed ingredienti-chiave
Aime, infine, parlava di malintesi negli incontri, dovuti alla “non conoscenza, alla superficialità, alla fretta”. E del viaggio risolventesi “non in una scoperta dell’altro, ma nella scoperta di noi stessi di fronte al nuovo”. Ci sta. Effettivamente, alla fine la questione è individuale. Se a chi scrive interessa davvero sedere in un villaggio a parlare con le persone, bisogna ammettere che nei gruppi a volte ciò non è altrettanto sentito, o forse la cosa è percepita come talmente inusuale che sembra poco praticabile: “Mi è spiaciuto constatare che in tanti incontri da me proposti la gente reagiva cogliendo un decimo degli spunti” (L’Abate, 2006). “…i turisti parlavano insistentemente tra loro di cose che non c’entravano nulla col posto dove si trovavano” (Bazzanella, 2006). I commenti sono tratti dalle relazioni di alcuni tour leaders di RAM. Condivido, capita.

In coda, qualche altro pensierino. La mia esperienza dice che una dimensione conviviale dell’incontro in corso di viaggio può crearsi se vengono soddisfatti tre/ quattro criteri di fondo: se si ha davvero la capacità e la voglia di fare domande per capire, piuttosto che volersi affermare; se il contesto scelto è quello giusto, cioè se la gente ti accoglie, o perché ben disposta ad accoglierti, o perché l’incontro è stato ben preparato; se c’è un buon interprete, sensibile; se quello che verrà fatto è stato spiegato a dovere in anticipo al gruppo dei visitatori, che deve saper gestire la discussione.
Poi, un buon viaggio è un processo armonico, come lo è quello che conduce a un’opera d’arte, e l’incontro ne rappresenta il cuore. I tour operators del TR italiano, ed i turisti che partecipano alle proposte, condividono tutto questo non superficialmente? Vorrei chiederlo a tutti, oggi, dopo quasi 30 dai primi viaggi di un certo tipo.
La mia esperienza dice ancora che è fondamentale trovare punti di contatto, in comune con l’interlocutore. Pretesti? Forse, ma è così che si inizia a fare amicizia, almeno superficialmente. Non si pretende che dagli incontri scaturiti da questi viaggi la gente cambi la propria vita: si tratta solo di un approccio iniziale, di organizzare un’esposizione breve ma di qualità ai contenuti che la comunità locale vuole condividere. Una onesta chiacchierata tra turisti e gente del posto, con una intervista pubblica, serve degnamente allo scopo. Inquadra il contesto, fa capire. E’ vero, però, che il mediatore culturale deve essere all’altezza, e che i partecipanti devono partecipare attivamente. L’empatia è fondamentale.
Infine, conta l’autenticità del contesto: se troppo turismo ancora sul posto non si è visto, allora tra la gente del posto prevalgono cortesia, curiosità, apertura, e al viaggiatore sta solo il compito di onorarle (certo in questo caso la danza la menano gli ospitanti, se scegli una homestay magari hai solo un bagno esterno, una doccia rudimentale, latitano la privacy e i tempi tuoi). Al contrario, dove i turisti siano già arrivati in forze la scena cambia, compaiono le comodità ma tutto diventa in fretta esibizione di un’autenticità ormai svanita. Puro mercato.
E nel cosiddetto Turismo Responsabile la situazione non può essere questa. Per un incontro che resti sincero (TR è relazione) il visitatore necessita solo di vera curiosità, di apertura, di andare oltre la vergogna e la ritrosia. Se uno questa curiosità non ce l’ha – non è obbligatoria – meglio non scegliere un viaggio del genere.
Si tratta, certo, di essere disposti a mettersi in discussione. Almeno un poco. Più ancora che di osservare come si tinge una stoffa o come si raccolgono le arachidi, cose importanti ma in fondo pretesti, si tratta di aver voglia di capire come davvero vive l’altro. Inoltre, siccome ogni viaggio rappresenta uno specchio, che riflette noi stessi attraverso la relazione, succede quanto suggeriva Aime. In discussione può finire il come si vive a casa nostra. Per raffronto.

Delhi, India del nord, novembre 2018. Avani Kumar, social worker e storica guida di RAM, in visita al Tempio Sikh Bangla Sahib, nel cuore della capitale indiana. Foto Vinicio Capuzzo.