Partiamo da un film: dacché Bertolucci girò Il Piccolo Buddha, nel lontano 1993, il meccanismo della ricerca di un’incarnazione, tipico della tradizione religiosa tibetana, è diventato più comprensibile all’opinione pubblica occidentale. Questo insight su un fenomeno avvolto nel mistero e nel mito è stato uno dei maggiori meriti della pellicola del grande regista, scomparso a fine novembre 2018.

Ne Il Piccolo Buddha si cercava un imprecisato lama di alto rango. Nella vita reale, dal 1989 le gerarchie monastiche tibetane hanno cominciato a cercare il nuovo Panchen Lama (appena scomparso il precedente). Qualche anno dopo l’hanno trovato e nel 1995, dopo le debite verifiche, il Dalai Lama ha sancito con il proprio suggello l’ufficialità dell’intero processo.

Il Panchen Lama è considerato la seconda autorità religiosa del buddhismo tibetano. Prima dei cinesi, la sua sede era il grande e tuttora fascinoso monastero di Tashilumpo, a Shigatze. Ma l’ultimo Panchen, che criticò duramente l’invasione e le scelte coloniali del regime cinese ogni qualvolta gliene venne offerta l’occasione, venne deportato a Pechino negli anni ’60. Gran brutta storia, la sua: sparì dalla circolazione per ricomparire solo sporadicamente, a distanza di anni l’una dall’altra volta. Subì probabilmente un lavaggio del cervello, e passò in prigione una quantità intollerabile di tempo. Sempre e solo, naturalmente, per reati d’opinione.

 

Manifesti a Mc Leod Gunj, novembre 2018, che raccontano la vicenda del più giovane prigioniero politico della storia.In alto, il 10° Panchen Lama, cioè quello precedente. In basso a sinistra Gedun Choekyi Nima, il piccolo nuovo Panchen fatto sparire dai cinesi. Foto Renzo Garrone

Nel buddhismo tibetano, la ricerca di una reincarnazione d’alto rango – normalmente, di un lama – è processo rigoroso, che prevede la disamina di decine di indizi e prove. L’evento si segnala a chi abbia gli occhi per vedere con sogni, visioni, segni premonitori. Quella che si concluse nel maggio 1995 aveva portato all’individuazione del nuovo Panchen Lama in Gedun Choekyi Nyima, un bambino tibetano di 6 anni. Ma se una reincarnazione trasmette all’altra il proprio destino, quello di Nyima si conferma amaro quanto quello del predecessore: dopo un paio di mesi il ragazzino fu fatto sparire, assieme ai genitori; e da allora non è mai più riapparso. Le gerarchie del suo monastero vennero deposte, i monaci arrestati. Secondo la definizione di Amnesty International, il suo caso fu (e rimane) quello del più giovane prigioniero politico del mondo. Si dice che, come il predecessore, egli sia stato deportato a Pechino.

Al posto del designato, i cinesi scelsero e nominarono un altro bimbo. Al tempo si trattava di una politicizzazione della questione senza precedenti, come avevano notato fra gli altri, oltre alla stampa, anche il Senato degli Stati Uniti ed il Parlamento Europeo (che reagirono con Risoluzioni in proposito, nello stesso 1995). Al solito, la polizia represse in Tibet ogni discussione sull’argomento. Ciò nonostante, nelle città principali dell’altipiano apparvero manifesti di protesta, affissi clandestinamente.

Campagna contro le sparizioni in Tibet, novembre 2018. Manifesti a Mc Leod Gunj, l'enclave principale dei profughi tibetani in India. Foto Renzo Garrone 

L’elemento nuovo della vicenda: essa offriva l’occasione alle autorità della Repubblica Popolare di affermare il proprio controllo anche su un ambito, come quello religioso, che mai aveva destato il loro interesse se non in chiave denigratoria (prima) o di convenienza (poi). Pechino prese da allora a rivendicare addirittura il riconoscimento di una reincarnazione come se si trattasse di un patrimonio storico della cultura cinese. Il meccanismo fu esteso alle altre religioni che sopravvivono nella Repubblica Popolare. C’è un Ministero della Religione che desidera mettere il becco nelle nomine di ogni gerarchia, vedi anche la lunga diatriba e poi l’accordo del settembre 2018 tra Pechino e il Vaticano, sulla Chiesa Cattolica in Cina.

Da allora ci trovammo di fronte ad uno stato che, a livelli di propaganda, bollava il culto come manifestazione da estirpare, mentre oggi nomina organismi ufficiali che super-vedano ogni questione religiosa, cercando di estendere il proprio controllo a questa sfera, ambito del privato per definizione. Non è difficile vedere in tale escalation (paranoia da controllo) una mossa per delegittimare i leader naturali di ogni religione, e tra i tibetani il Dalai Lama, in patria come nell’esilio.

Monaco novizio al Monastero di Namgyal, Mc Leod Gunj, novembre 2018. Foto Renzo Garrone 

Per la mentalità occidentale ordinaria, la reincarnazione è solo un’ipotesi, per di più davvero esoterica. Non è certo una questione all’ordine del giorno (“ma tu ci credi?” domanda il conoscente all’amico che viaggia spesso in oriente. Con uno sguardo che denota come lui non ci creda affatto). Per i tibetani, invece, la reincarnazione rappresenta un elemento di identità e continuità culturale, da difendere a spada tratta. I tibetani, almeno in buona parte, vivono tuttora la propria religione e quindi anche i meccanismi legati alla reincarnazione (compreso il riconoscimento dei propri leader) con un’intensità ardua da riscontrare in altri popoli sulla terra. E’ fuori discussione ci si creda o meno: la reincarnazione è un fatto, assunto con il latte materno. E lo straordinario percorso del riconoscimento, anche per i tibetani di questo millennio, costituisce parte integrante del fenomeno.

A tutt’oggi frattanto Gedun Choekyi Nyima, il Panchen Lama che-non-doveva-essere, non è mai più stato visto da alcun osservatore indipendente. E i tibetani della diaspora - trent’anni dalla sua sparizione cadono nel 2019 - si preparano a ricordarlo.