(seconda parte)

Ancora Larantuka

Per capire un pò meglio Larantuka bisogna vederne i dintorni. Così dedico una giornata ai villaggi attorno al monte Mandiri, che domina il comprensorio. Utilizzo per questo periplo su strade di campagna, in senso orario, uno dei tanti pullmini scassati in cui l'Indonesia sembra specializzarsi. Lo prendo a nolo. A bordo solo la guida ed interprete Lambert, e il sottoscritto, più un autista. Il pullmino casca a pezzi, letteralmente, senza un sedile che non si stacchi dalle sue intelaiature o la cui gommapiuma non sia marcita negli anni. Ma terrà fino alla fine del giro.

Partiamo con il santuario dedicato a monsignor Gabriel Manek, accanto al quale sorge una nitida missione cattolica, la Putri Reyna Rosary. Qui, sotto gli alberi frondosi, per una mezz'ora la frequente spazzatura dei dintorni è solo un ricordo. All’interno un pugno di suore locali, discrete ed efficienti, sembra muoversi in continuazione.

Sulle tracce del cattolicesimo e del suo radicamento a Flores, proseguiamo con la Capela Anak Tuhan Meninho, dedicata a Gesù Bambino - da cui, secondo la mia guida, non si può prescindere. Tuhan sta per ‘dio’: dominano qui le mescolanze di idioma locale e di portoghese. Da questo santuario parte ogni anno la grande processione di barche del venerdi santo, sottolinea Lambert con passione.

 

Bambini nel villaggio di Wailolong

Quindi, davanti alla spiaggia di Palo, ecco schierate le imbarcazioni per Adonara, la grande isola dirimpetto a Flores. Per ora campano a stento sui pendolari locali che fanno avanti e indietro. Anche qui il governo ha promesso un ponte, spiega Lambert, di cui però finora non vi è traccia. Poco oltre, eccoci alla spiaggia  prospiciente il villaggio di Weri, da dove Larantuka continua a guardare Adonara, al di là di un canale di mare aperto. I Portoghesi nel 1544 chiamarono questo promontorio Capo da Flora. Ci fermiamo a osservare la pianta dell’anacardo, dalle foglie carnose, di cui si raccoglie solo il frutto. I frutteti circostanti ne sono pieni.

Wailolong

Proseguendo nel periplo del Mandiri torniamo ad Asam Satu, nel caldo feroce del primo pomeriggio, per poi salire verso l’interno. La prima vera sosta è nel villaggio di Wailolong, dove ci capita di familiarizzare e discorrere a lungo con una famiglia molto amichevole, letteralmente egemonizzata da un gruppo di ragazze ciarliere. Fungo da guest star, lo straniero sbarcato da chissà dove. Oggi me lo chiedo anch’io, effettivamente, che ci faccio qui. Ad essere onesti l’evento del giorno non è però il sottoscritto ma il fatto che una di loro, sposata in Malaysia, è tornata a casa per un breve periodo di visita alla famiglia di origine. In Malaysia, la ragazza c’è andata seguendo il marito, perché là si lavora, là ci sono i soldi. A Wailolong invece…

Tra la gente di Wailolong

Situato in aperta campagna il paese, che sorge a qualche centinaio di metri di altitudine, è lindo e pulito. Ma la lontananza da tutto è ancora più palpabile: persino Larantuka sembra remotissima. Fa sempre molto caldo, in modo spietato, insistente - è la calura dei luoghi dove non piove mai. Poco lontano, in mezzo alla campagna, un folto gruppo di contadini lavora a caricare su un furgone noci di cocco asciugato al sole, artigianalmente, raccolto in sacchi da 50 kg l'uno. Mandano tutto a a Surabaya, spiegano, il principale porto mare dell’isola di Giava. Questi cocchi si vendono alla fonte a sole 10.000 rupie al kg, poco più che 60 centesimi.

Wailolong, lavorazione della noce di cocco. Partecipa tutta la famiglia

Chiacchierando con le famiglie di Wailolong, con l’aiuto letterale e le buone interpretazioni di Lambert, scopro come nei villaggi della montagna attorno a Larantuka viga ancora il costume della dote. Si tratta anche qui di paesi perlopiù cattolici, dove spunta spesso una chiesa. Chiese che però purtroppo, contrariamente a quanto speravo, architettonicamente non valgono granchè: nemmeno lontanamente paragonabili a quelle suggestive di Goa (Velha Goa, per esempio), o del Gujarat indiano (concentrate nell’enclave di Diu), qui sorgono incongrue nella boscaglia, nuovissime, ma di cattivo gusto. Per il resto a Flores, chiese a parte, il costume sembra rimanga atavico. La dote più apprezzata per esempio, spiega Lambert, non consiste in vestiti ma in avorio! Il cui utilizzo, nonostante oggi sia proibito, resta tradizionale: lo usavano gli antenati della popolazione attuale, era sicuramente un riflesso di antichi status sociali dell’epoca portoghese, e quindi va mantenuto in voga. Un certo tipo di memoria resiste, certe usanze si tramandano, la gente vi resta avvinghiata. Così in qualche modo bisogna procurarsi ancora adesso zanne d’elefante, aggiunge la mia guida. Zanne che valgono oro, da queste parti, e funzionano anche in termini di compensazione per la famiglia di una ragazza che sia stata messa incinta fuori dal matrimonio. Insomma, la Flores profondamente rurale rimane un mondo a parte, con le sue parrocchie cattoliche e le sue missioni sparse nella campagna. Intriso di tradizioni multiple e bizzarre, ma segnato dall'emigrazione, forse l'unico fatto storico davvero nuovo.

Ancora, a proposito di cattolicesimo: un paio di giorni dopo a Larantuka, decisamente sorpresa di incontrarmi sarà una giovane signora dietro il banco del negozio di famiglia, nel bazar. Che parla italiano piuttosto bene. Come mai? Era stata in Italia per ben 10 anni. E dove? A Roma ovviamente, dove vestiva l’abito da suora. Poi si era “ammalata”, dice lei un po’ oscuramente, e aveva lasciato il convento, l’ordine, l’Italia, un po’ tutto - chissà se anche la vocazione. Mi piacerebbe approfondire ma non posso, perché il fugace incontro avviene proprio mentre sto ripartendo, armi e bagagli - non sopporterei un’altra giornata nella bettola dov’ero accasato. “Ammalata di nostalgia?”, farò in tempo a chiederle. Lei ribatterà che no, non è stata la nostalgia a riportarla a Flores, lasciandomi con le mie domande a mezz’aria.

Wailolong

In questa isola ogni villaggio dunque ha la sua chiesa, com’è logico, ed anche le etnie ce l’hanno (come i Lio vicino a Moni e al Kelimutu per esempio, che vedrò qualche giorno dopo). Largamente cattolica, geograficamente parlando Flores rappresenta uno dei ‘confini confessionali’ frutto dell’espansione portoghese e nel Pacifico; che per certi versi funzionò quale argine all’avanzata storica dell’Islam da ovest ad est, attraverso l’Indonesia distesa sull’Equatore.

L’ominide di Flores. Preistoria

A Larantuka faccio pausa studiando un po’ la storia, ma fondamentalmente la preistoria, coi fondamenti della civilizzazione indonesiana. Nell'isola dove mi trovo accaddero cose molto interessanti. I primi abitanti dell’arcipelago di cui si abbiano tracce vengono segnalati proprio a Flores: si tratta dell’Homo Floresiensis, un ominide, detto Ebu Gogo nelle leggende locali, che incrocia e poi si stabilisce da queste parti qualcosa come 40.000 anni fa. Secondo lo storico Tim Hannigan (A brief history of Indonesia), non è chiaro da dove questi primi abitanti provenissero, probabilmente si trattava di Melanesiani, ma giungono comunque a Flores spostandosi in direzione est. Forse arrivavano dal sud est asiatico, dopo aver attraversato le isole di Sumatra, Giava e Bali. E fatto il grande salto oltre lo Stretto di Lombok, da Flores si proietteranno ben oltre, prima a Papua e quindi nel Pacifico.

Il resto della popolazione indonesiana sembra invece sia Austronesiana, cioè di una diversa matrice, che accomuna popoli presenti oggi in Oceania e in Asia sud orientale, parlanti lingue di una famiglia idiomatica probabilmente discendente dagli antichi aborigeni dell'Oceania (di ceppo mongolide). Costoro, abilissimi navigatori, a un certo punto della storia partono dall’isola di Taiwan (oggi quasi interamente popolata da cinesi Han) per arrivare anch’essi in Polinesia.

Il grande rimescolio di queste genti attraverso decine di migliaia di anni, quando anche il clima era diverso, e i mari meno profondi, segnala scenari affascinanti ma dalla genesi e dallo sviluppo incerti, troppo intricati perchè gli stessi archeologi, e gli storici, possano concordare su un numero accettabile di punti fermi. Di questo grande processo di mescolanze è complicato comprendere anche solo la cronologia. 

Scrive Hannigan sui primi ominidi, dipingendo una scena di grande suggestione: “Il gruppetto, composto di figure atletiche, scure di pelle, dalle lunghe leve, si muoveva in salita attraverso gli alberi. Erano uomini armati di lance appuntite con pietre aguzze, portavano con loro canestri intrecciati con alimenti raccolti nella foresta. Quel giorno, nel loro percorso, avevano seguito un torrente piuttosto esile, attraverso le colline, e a un certo punto osservato, dal basso verso l’alto, l’apertura di una grotta. Il territorio di quella migrazione si trovava nell’ovest di un’isola che i primi marinai portoghesi, millenni dopo, avrebbero chiamato Flores. Pochi erano gli animali pericolosi in questa foresta, ma a un’altitudine di circa 1000 metri sul livello del mare sarebbe stato freddino dopo il tramonto, e la grotta offriva un riparo attraente. Il gruppo fece una pausa. La volta era ampia, c’erano delle stalattiti…; gli uomini la trasformarono nel proprio campo, prima del buio, ed accesero un fuoco. Questi uomini erano Melanesiani, dediti alla caccia e alla raccolta di frutti e radici selvatiche, e facevano parte di un popolo più vasto che andava facendosi strada attraverso le foreste dell’arcipelago. E, per quanto ne sappiamo, furono loro i primi umani che raggiunsero l’Indonesia attuale, 40.000 anni fa. Usavano lance con le punte di pietra e seppellivano i loro morti. Di solito si muovevano nelle foreste, ma anche lungo i corsi d’acqua, o sulle coste, raccogliendo frutta e radici, cacciando pesce, conchiglie e animali selvatici per la loro carne. Alla fine, negli angoli più accoglienti di quelle aree, si sistemarono creando i propri nuclei di capanne e iniziarono a dissodare il terreno, adottando forme primitive di agricoltura.  

Il loro incedere attraverso dell’arcipelago fu lento. Ma avevano sia il tempo che la geografia a favore, poiché durante il periodo della loro espansione il livello dei mari era di gran lunga più basso di quello odierno  Faceva più freddo di oggi, e ai poli il ghiaccio si era consolidato, gonfiato, trattenendo parte dell’acqua complessiva del globo. Idealmente, a quel tempo, sarebbe stato possibile camminare dall’odierna Thailandia all‘odierna Bali senza bagnarsi!

Ogni tanto però qualche impeto ignoto generava viaggi più impegnativi, ed allora i Melanesiani affrontavano il mare con le loro imbarcazioni artigianali. Del resto i loro progenitori, i primi ad arrivare a Flores, vi erano giunti attraversando lo stretto di Lombok, un canale situato tra Bali e le isole di Nusa Tenggara oggi percorso da forti correnti, ma che anche all’epoca costituiva un salto impegnativo - quelle acque erano già profonde, non scomparivano neppure durante le glaciazioni. E dopo che, nei secoli, viaggi successivi di questo tipo divennero loro più familiari, i Melanesiani si ritrovarono nell‘attuale Nuova Guinea, e poi sulla rotta di altre piccole isole, nel sudovest del Pacifico.

Lo stretto di Lombok, profondo già nella preistoria

Ma tornando all’episodio iniziale: gli uomini nella grotta di Flores non sapevano di essersi fermati in una delle culle della paleontologia, di aver scelto una di quelle rare situazioni (di solito si tratta appunto di grotte) dove il fango della preistoria si accumula in strati profondi (…)”. “Sebbene gli abitanti di Flores” – è sempre Hanningan che scrive – “abbiano tramandato leggende relative a una sorta di pigmei, persone di bassa statura dette Ebu Gogo, nessuno poteva asserire che si trattasse di fatti storici. Fino al 2003, quando un team di paleontologi indonesiani e australiani, vicino alla fatidica grotta di Liang Bua, dissotterrarono un piccolo scheletro risalente a 18.000 anni fa…“

La grotta di Liang Bua, dove nel 2003 furono trovati i resti dello hobbit di Flores, l'Homo Floresiensis. Foto Smithsonian Institute

Si trattava di una femmina, dai tratti un poco differenti dal solito - alta a malapena un metro. Gambe corte, piede a pianta larga, braccia lunghe distinguevano questi hobbit.  “(…) Nella stessa grotta trovarono altre tracce di quelle stesse creature, alcune datate fino a 95.000 anni prima, assieme a resti di pietra lavorata che suggerivano l’uso abituale di utensili semplici. Quei reperti furono numerati, e l’ipotetica nuova specie chiamata Homo Floresiensis. (…)

Così, mentre si faceva strada il consenso attorno alla nozione di una specie nuova, più simile al precedente Homo Erectus piuttosto che al successivo Homo Sapiens, emergeva un'altra ipotesi. Da molto tempo sappiamo che esistevano degli umanoidi a Giava, databili oltre un milione di anni orsono; le loro ossa sono state trovate nel fiume Solo. (…) Ma Giava (al tempo) era connessa col continente in vari punti, e nessuno pensava che questa sorta di scimmie antropomorfe potessero spostarsi altro che a piedi... (...). La scoperta dello hobbit di Flores provava invece che molto, molto prima – quindi almeno 95.000 anni, ma è possibile anche fino a 840.000 prima! – delle creature quasi umane avessero già compiuto il il primo viaggio marittimo della storia della regione, superando lo Stretto di Lombok, straordinaria cerniera tra le sfere ecologiche (geografico-climatiche) asiatica e australiana. E quelle creature si trovavano ancora lì nel periodo delle migrazioni dei Melanesiani attraverso l’arcipelago. Al di là del mito dell‘Ebu Gogo, si crede comunque che questi hobbit si siano estinti 12.000 anni fa, più o meno nello stesso periodo un cui sparì l’elefante nano di Flores, probabilmente a causa di una grossa eruzione vulcanica”.

Eppure, divisero quasi certamente l’isola fino a epoche relativamente recenti con altri sapiens più “moderni”, che popolavano allo stesso tempo il sud est asiatico e l’Australia. Perché l’ Homo Floresiensis, evolutosi probabilmente dall‘Homo Erectus, sopravvisse a lungo a Flores, quando altrove la sua specie si era ormai estinta.