(prima parte)

Da Jakarta a Larantuka, via Timor

Sulla carta, vista da fuori, sembra si tratti di una destinazione remota. Di Larantuka, estrema propaggine di Flores, le guide turistiche dicono sia stata la prima tappa dello sbarco portoghese nell’isola (i lusitani, basati a Timor, cercavano nuove basi nell’arcipelago per i propri traffici marittimi).

Mi documento prima di partire. Nel 1575 a Larantuka sorgeva già un gran numero di missioni dominicane. I portoghesi rimasero fino a metà dell’800, le tracce del cattolicesimo dicono siano ovunque. Immagino cattedrali barocche dalle facciate imbiancate a calce, immerse nella vegetazione equatoriale. Mi immagino esplorarle, fotografarle. Le ho già viste in India, in Gujarat e a Goa, e sono davvero uno spettacolo.

La mia idea è appunto esplorativa: percorrere l’isola di Flores a ritroso, da est a ovest, da Larantuka a Labuan Bajo, lungo la sua dorsale montuosa. E’ il tragitto della Trans-Flores Highway che collega uno dopo l’altro tutti i centri principali. In totale sono circa 700 km, in cui si calcola che la velocità media statistica ammonti a 30 km/h.

A Larantuka c’è anche un piccolo aeroporto. Sarà la mia prima meta. Il luogo pare non comporti appeal di sorta: per quanto cerchi qualche descrizione letteraria in proposito, al di là di alcune scarne informazioni, non ne trovo. Però, sebbene non rifugga per principio i luoghi turistici (non condivido l’ossessione di certo turismo per l’esclusività), non avere neppure un visitatore in giro in Indonesia può significare asperità del viaggio, assenza di ogni confort, sporcizia. Passo già molti mesi dell’anno all’estero in paesi poveri, e stavolta non muoio dalla voglia di sbattermi. Vorrei quindi saperne qualcosa anzitempo. Ma non è facile procurarsi informazioni aggiornate.

Alla fine, decido di fregarmene, e compro il mio volo. La voglia di vedere Flores, desiderio che ho da anni, ha il sopravvento.

A Jakarta raggiungo il mio terminal, l’1/C dell’aeroporto, con l’efficiente navetta dell’hotel. Ma Il gigantesco Soekarno-Hatta della capitale indonesiana è diviso in tre aree distanti tra loro, suddivise ulteriormente in altre sezioni, il che sarebbe sufficiente a confondere qualsiasi viaggiatore poco concentrato. Però, posto che tu faccia il minimo, gli indonesiani compiono il resto. Sono bene organizzati.

Uno dei terminal 'in età' dell'aeroporto di Jakarta

 

Il check-in si rivela agevole oltre le aspettative. Chiedo ad una hostess che si occupa delle file, tramite lei mi fanno passare dritto al banco della business senza neppure un minuto di coda, con un sorriso. Certo, oggi l’aeroporto sembra poco affollato; ma mica male come introduzione al gruppo Lion Air, primo vettore indonesiano per passeggeri trasportati sui voli interni al paese; un mercato già piuttosto grosso, e in crescita evidente. Stamani volo Batik Air (che fa parte del conglomerato) fino a Kupang (Kupang è a Timor ovest, un tiro di schioppo dalle coste di Flores). Nel pomeriggio sarà invece Wings Air, da Kupang a Larantuka. Sempre del gruppo Lion si tratta.

In breve ottengo dunque la carta d’imbarco col mio window seat, uno dei piaceri del viaggiatore investigativo, che desidera non solo esplorare e descrivere, ma magari, dal finestrino, anche sognare godendosi il sole, le nubi e i paesaggi. 

La sala d’imbarco del Terminal di Jakarta è di vecchia concezione, ma gradevole, immersa in una profusione di giardini. Nell’attesa del volo, osservo una coppia di fidanzati seduta proprio di fronte a me. Per quel che ne so, cioè nulla, potrebbero anche essere due giovani sposi – comunque stanno insieme. Lui è vestito in modo casual, molto normalmente, lei è velata modernamente, secondo i dettami dell’Indonesia classica contemporanea, il viso scoperto. I modi di lei sono quelli di una ragazza spigliata e tranquilla. Ai miei occhi, i due rappresentano un esempio perfetto di coppia locale, eppure il loro comportamento contraddice totalmente l’immagine (il preconcetto) che abbiamo in Italia di questo paese. I due se ne stanno abbracciati su questa panchina in una piccola hall dell’aeroporto, infatti, in attesa del proprio volo. Comodi comodi, senza remore né imbarazzi. Lei non risparmia a lui effusioni e carezze, in modo molto naturale ed affettuoso, né ostentato né eccessivo - ma si tratta pur sempre di una manifestazione e di un contatto fisico molto pubblico. In un paese a larga maggioranza islamico. Dove un europeo medio pensa – secondo i luoghi comuni – che le cose funzionino diversamente.

La gente attorno non appare né disturbata né colpita in alcun modo. D’accordo, siamo a Jakarta e Jakarta è una metropoli, eppure… L’intimità dei due è scontata, accettabile, perfino rassicurante. Evoca quella naturale esigenza di prossimità, anche fisica, presente in ognuno di noi, e che invece così tanto si trascura in tante altre società, nei contesti intellettualizzati all’eccesso, dove nelle sale d’attesa le compensazioni emotive si fanno parossistiche, o viceversa la noia si taglia a fette. Non che questi due fidanzati indonesiani non dispongano delle proprie vie di fuga. Entrambi, pur restando abbracciati, consultano i propri dispositivi elettronici, ma poi si scambiano le proprie impressioni, le condividono, ne ridono, si stiracchiano sulla sedia.

Flores. Larantuka è nell'estremo oriente dell'isola

 

Ed eccoci al volo per Kupang. L’aeromobile è un bell’Airbus 320 forte di una novantina di posti. Nuovo. Splendide le hostess, coi modi accoglienti propri dell’Indonesia e assai comuni, del resto, in sud est asiatico. Queste indossano delle bluse bianche, tagliate all’orientale, che le fanno apparire ancor più squisite. Il volo è in ritardo di un’ora, cambiano pure il gate di partenza, e non annunciano nulla in inglese, ma il mio vicino di attesa, un signore di Timor, traduce subito per me, molto gentilmente. L’aereo è mezzo vuoto. Pare non siano molti i turisti che si dirigono a Timor West oggi, ma neppure i timoresi (timorati?) che viaggiano da/per Jakarta.

E però, quello di Jakarta resta un aeroporto very busy. La particolare conformazione del territorio, in Indonesia, la sua estensione (ben 7000 km lineari da Sumatra a Papua) rende l’aereo l’opzione migliore in termini di trasporto. Ho già osservato in Nepal un fenomeno analogo. Là l’ostacolo sono le montagne impervie, qui le isole, entrambi costituiscono fattori di isolamento. In Nepal, è arduo e costoso realizzare strade in montagna senza possedere tecnologie adeguate. In Indonesia i traghetti da isola ad isola esistono, ma vengono unanimemente descritti come disagevoli, affollati, scomodi, ed accumulano ritardi epocali; per contrasto, i voli sono relativamente economici. Fuori dalla portata di un indonesiano indigente, va da sé, ma non da quella di uno medio. E in poche ore arrivano a destinazione. Garantendo quell’efficienza che oggi anche qui s’è fatta regola.

Poi dormo perbene, in volo, e quando mi risveglio c’è il blu slavato del mare tutt’attorno, il cielo sereno del mezzogiorno, banchi di nuvole candide che galleggiano, e terra e basse colline ove le nubi maggiormente si addensano. Eccole, le mie 17.000 isole nella corrente…! E’ il titolo di una conferenza pubblica sull’Indonesia che ho fatto qualche mese fa. Nell’ultima dozzina d’anni, un annetto e passa l’ho vissuto in questo paese: che mi piace molto.

Sotto, qualche imbarcazione punteggia l’oceano, ogni tanto. Poi il pilota annuncia che stiamo scendendo, verso Timor. Ho dormito quindi quasi due ore, riuscendo comunque a fare una pausa per l’immancabile nasi goreng, il riso saltato in padella che costituisce il piatto nazionale.

Atterrando, ecco i fondali costieri, banchi turchesi visibilmente differenziati dai blu intensi delle maggiori profondità. E poi spiagge deserte di sabbia candida, lagune, che contrastano duramente con le colline dell’interno, in questa stagione terribilmente riarso. Dopo Lombok in Indonesia attraversiamo infatti la Linea di Wallace, così battezzata in omaggio allo straordinario ricercatore inglese che dedicò buona parte della vita alle peculiarità di questa zona. Qui il clima dell’arcipelago, tutto sdraiato sull’equatore, cambia drasticamente: dall’umidità prevalente nell’ovest si passa alla maggiore aridità dell’est; in questa fascia climatica intermedia resistono specie animali (come il varano di Komodo, il preistorico dragon) altrove estinte da millenni.

Vira, pilota, cantava Paolo Conte in Aguaplano; ed ecco l’aereo che si abbassa, i giochi del sole sulla superficie rugosa del mare, la natura impareggiabile maestra di cerimonie. Stiamo scendendo nella Timor Ovest, quella indonesiana. A Timor est, la porzione orientale dell’isola, il 30 agosto 1999 è stata finalmente concessa l‘indipendenza, dopo anni di turbolenze e conflitti con Jakarta. Nell’est, a lungo aveva attecchito la dominazione portoghese. Dell’ovest invece non so nulla; ma si tratta solo di un breve stop sulla rotta per Flores. 

Visto dall’esterno, nella luce accecante del mezzogiorno, l’aeroporto di Kupang sembra una cosa minima, ricavata nella campagna. Giusto 5-6 velivoli rosolano sulla pista in una giornata serena, e questo è tutto. Le metropoli come Bombay e Jakarta che ho macinato negli ultimi giorni, tutte quelle immagini sovrapposte, e le folle, sono solo un ricordo. Roba che pare impossibile, per raffronto. Ma in realtà c’è gente anche qui, come scoprirò quasi subito, solo che è tutta dentro l’aerostazione. L’aeroporto di Kupang non appare più così remoto una volta approdati nella grande sala delle partenze, affollatissima nel primo pomeriggio. Potrebbe essere il sogno di un etnologo, questa hall, con facce particolari di provenienze assortite, da decine di isole diverse. In un angolo una piccola lounge a 85.000 rupie (6 euro!) pare un salotto di casa del meridione italiano negli anni ‘60: dentro si intravvede lo stile piccolo - borghese, ridondante, tipico di certe periferie indonesiane. Sempre in questa lounge de noantri un tocco di modernità, ahinoi, lo aggiunge il televisore acceso con la partita di qualche immancabile campionato inglese, ed un cronista dalla voce concitata a commentarla (come è noto, la Premier League è diventata ricchissima soprattutto grazie alla capacità di vendersi sui mercati, specie televisivi, di tutto il mondo). Poi, nella hall, fanno colore un certo numero di negozietti di souvenir disseminati qua e là.

Flores (sopra, a sinistra) e Timor West con il capoluogo Kupang (a destra)

 

Sui visori delle partenze compaiono compagnie aeree che mai avevo sentito, ma che in Indonesia sono familiari. Aeroporti improbabili eppure frequentati, si direbbe persino fiorenti. Naam Air va a Denpasar e in Borneo, Batik Air imbarca per Jakarta. Io attendo il mio transito.

Ed eccomi, poco dopo, sull’altro voletto per Larantuka, un ATR 72. La hostess, ancora più carina delle precedenti. E non era facile.

Il volo stavolta è pieno. Con la musica leggera, a bordo, che si discosta dalle solite nenie international che si vorrebbero rilassanti, ma a me provocano di solito una tristezza infinita: qui è invece musica indonesiana. Anche il magazine, il periodico di bordo della Wings Air con cui sto volando, è scritto esclusivamente in Bahasa Indonesia. Inutile sprecare traduzioni in inglese visto che qui gli stranieri non vengono.

Larantuka

Un bazar dimesso, dove l’attività portuale sembra riguardare solo una discreta flotta peschereccia - pesca artigianale - peraltro basica. E’ ciò che resta di quello che fu, comunque, il primo avamposto dei portoghesi a Flores. Povera gente, poco lavoro: questa la mia prima impressione del luogo. Unitamente a una sensazione di dimenticatoio davvero palpabile.

Nell'acqua fino alla cintola. Pesca artigianale in un'ansa del porticciolo di Larantuka

 

Non sono un tipo difficile, ma in città non c’è un hotel pulito. Non per fare per forza lo scrittore delle periferie: ogni tanto mi adatto alle bettole. Ma qui mi tocca ripiegare sul Flores Cottages, una resort malandata con giardinetti da ospedale, malconcia e sovrapprezzo (330.000 rupie a notte, circa 20 euro: con una cifra del genere nell’Indonesia del turismo stai benone, questa invece è una topaia). 

Scoprirò solo successivamente che sulla spiaggia di Weri (o Asam Satu, come la chiamano loro), a una dozzina di km da qui, un altro hotel vende le sue stanze di livello tre stelle, decenti e pulite, 450.000 rupie. Un’oasi rispetto alla povera incuria circostante.

Per Larantuka da Asam Satu sono solo pochi centesimi: 10.000 rupie con un ojek (il termine bahasa per mototaxi). L’aeroporto dista il doppio. Ma Bonny, così si fa chiamare l’improbabile ragazzotto del Flores Cottages, per venirmi a prendere me ne chiede 50.000. Povera gente, poco lavoro. Appunto. La strada costeggia il mare, la marea si sta abbassando, il paesaggio è punteggiato di belle mangrovie.

Larantuka. Mangrovie sulla strada dall'aeroporto al centro

 

Al Cottages incontro Lambert, che fa il receptionist. Un signore dall’inglese discreto, una buona sensibilità, e una marcata fascinazione per l’Italia - di cui peraltro sa poco o niente. Che abbia intitolato il proprio profilo Facebook Lamberto italiano, mi fa pensare a quanto, nelle vite troppo dure, sognare sia importante…

E a proposito di sogni, di desideri di apertura, di bisogno di altro, di evasione dalla propria realtà, nel 2015 disponevano di un profilo Facebook in Indonesia ben 126 milioni di utenti (il 49% della popolazione).

L’economia di qui, dice insomma Lambert con la sua tipica dolcezza di fondo, è legata alla pesca ed alla produzione agricola, ma il problema ricorrente è la siccità. Non piove da mesi – ho notato anch’io arrivando in aereo in che condizione fosse la vegetazione – e adesso siamo a settembre. Il culmine della stagione secca. Oltretutto, continua lui, qui tradizionalmente la gente taglia alberi, arbusti, stoppie e poi brucia, per preparare campi coltivabili per la prossima stagione. Taglia ma non rimpiazza, non protegge.

Ma di base, l’est dell’Indonesia non riceve le piogge invece comuni all’ovest. Sumatra Giava e Bali restano piuttosto verdi anche d’estate, che appunto è la stagione secca. Non dappertutto, ma in buona parte. Qui i venti sono simili e dovrebbe cominciare a piovere in ottobre ma invece spesso non si vede una goccia fino a gennaio, aggiunge Lambert.

Lambert, a sinistra. Alias, Lamberto italiano

 

Situata ad est di Sumbawa e ad ovest dell’arcipelago di Solor (che include Adonara, Lembata e Solor) oltre che dell'arcipelago di Alor, Flores guarda a sud-est verso Timor. Verso sud, oltre lo stretto di Sumba, si trova l’isola omonima, Sumba, mentre verso nord, oltre il Mare di Flores, più lontano, ecco il profilo della grande Sulawesi.

Lambert si è diplomato a Maumere, la città principale dell’isola, e l’unica un pò grossa a Flores. Da allora ha lavorato all’hotel Fortuna a Larantuka, un’altra topaia qui vicino, che osserverò più tardi, poi si è dimesso per passare a questa povera cosa che è il Flores Cottages. Lambert ha 50 anni, una moglie molto più giovane di lui e una bambina piccola, un bel modo di fare, ed il colletto della divisa dell’hotel sdrucito in modo grave, come non avevo più visto dall’India degli anni ’70, quando il subcontinente affogava nella miseria. Siamo di nuovo lì: alla mera indigenza dei senza-opportunità, che si vede dappertutto, e che con dolore sto cercando di misurare.

Lambert e la moglie, oltre allo stipendio di lui, dispongono di un pezzo di terra di cui si occupa soprattutto lei. Ma senza pioggia quest’anno i raccolti stentano, gli va bene se dalle loro piante di anacardi, i cashew nuts qui molto in voga, l’isola ne è piena, riusciranno a trarre qualche chilo di frutti. Gli anacardi al mercato, dove li portano a vendere, spuntano un prezzo di appena 23.000 rupie al kg, poco più di 1,5 euro. Se queste sono le cifre c’è poco da stare allegri. Quando riesce, Lambert mette insieme poi qualche giorno come guida, e se ben capisco quelli sono giorni fortunati. Una di queste giornate gliele consentirà il mio soggiorno.

Anacardi

 

Cattolicesimo e animismo

Abitata, secondo i dati più recenti, da circa 40.000 persone, Larantuka vede una maggioranza di cattolici e protestanti, ma i musulmani, anche qui, sono quasi la metà. Vige tolleranza comunque, dice Lambert, e questa è la regola dappertutto, soprattutto a Flores. Va ricordato poiché in altre isole dell’arcipelago ci sono state, dall’indipendenza in poi, violenze settarie anche gravi. Su base religiosa. Accadde soprattutto nelle Molucche (Maluku) e a Sulawesi, dove la divisione è più rigida: qui i conflitti sono stati sanguinosi. Flores costituisce di fatto un’isola di frontiera, un confine che separa iI Cattolicesimo (che qui arriva coi Portoghesi, nel 16° secolo impegnati nell’espansione verso il Pacifico), dall’Islam (l’altra espansione religiosa anch’essa protesa verso est, che attraversò l’intera Indonesia, convertendo Sumatra, Giava e poi spingendosi a Lombok ed oltre). Là in mezzo, solo Bali riuscì a conservare il proprio induismo così peculiare.

Il pontile, Larantuka

 

Ma a Larantuka e dintorni in realtà domina l’animismo dei Lamaholot, l’etnia del posto, che si sovrappone al più strutturato cristianesimo: le due pratiche in qualche modo convivono.  Anche tra i Lamaholot, come nella maggior parte dell’universo orientale, non solo in Cina o in Vietnam ma anche in tutte le isole dell’Indonesia che ho visitato, domina il culto degli antenati, gli ancestors. Qui spesso rappresentati da due figure capostipite del proprio popolo, un maschio e una femmina, raffigurate in statuine, pupazzi, effigie varie.

A Larantuka ci sono le scuole superiori ma non l’università. Nel mondo competitivo di oggi dove studiare fa la differenza, questo è un indicatore certo: fu il primo luogo dell’isola colonizzato dall’occidente, e va bene. Ma si tratta ormai di una backwater.    

La porzione più bella della costa è quella che si estende verso il terminal dei bus di Oka. Quasi diroccata, come spesso succede da queste parti, la locale stazione dei bus possiede però un suo fascino particolare, tipico delle bus stations Indonesiane – che magari solo io considero tale –, frequentate soltanto da scassatissimi pullmini locali che operano su tratte brevi, a beneficio degli abitanti dei villaggi del posto. Affollate nelle prime ore del mattino, esse divengono luoghi deserti e persino inquietanti nel resto della giornata. Cartacce e macchie d’olio su un selciato decrepito, martoriato da sole e incuria, rappresentano lo spettacolo consueto. Ma 200 metri lontano, a due passi, campagne e mare lasciano a bocca aperta per la loro selvaggia bellezza. Sarà la suggestione dell’ex dominio portoghese, ma evocano languori caraibici.

Fuori Larantuka. Mangrovie e barche da pesca in bassa marea