Una serie di attacchi terroristici suicidi e di bombe sconvolse l’Indonesia centro-occidentale, e in particolare Bali e Giava, a partire dall’inizio degli anni 2000. Furono fiammate, episodi apparentemente isolati gli uni rispetto agli altri (anche se poi si scoprì una matrice comune) ma sollevarono grande scalpore ed ebbero peso nell'economia del paese.

Altrove nel mondo, specie nelle capitali europee, accadde molto di peggio. Oggi nelle isole dell’arcipelago più grande del mondo si tratta di pagine archiviate, ma vale la pena di raccontare cosa accadde. Si tratta di eventi che raramente vengono narrati a chi solca tante di queste zone, oggi votate al turismo internazionale. E che nell'immaginario internazionale compaiono solo in relazione alle vacanze.

Cosa pensano i Balinesi del terrorismo che insanguinò la loro isola lo dice molto chiaramente la maglietta di questo ragazzo, ritratto nel 2018 in un cantiere vicino al Danau Bratan. I terroristi possono andare a farsi fottere, implica la dicitura sulla Tshirt: hanno rovinato per qualche anno ciò su cui campavamo, cioè il flusso turistico. Che peraltro, nell'ultimo decennio, è ripreso alla grande. Foto Renzo Garrone

 

Il 12 ottobre 2002 ebbe luogo la strage più famosa nella storia dell’isola di Bali, che mise in ginocchio il turismo, la risorsa locale chiave. Ciò che accadde in una discoteca di Kuta, nel centro della cittadina omonima, grande divertimentificio nel sud di Bali, fu anche una delle prime clamorose stragi della stagione del terrorismo internazionale che era iniziata l‘11 settembre 2001, con l’attentato alle Torri Gemelle di New York.

La spiaggia di Seminyak, nel sud di Bali. Foto Renzo Garrone

A Kuta morirono ben 202 persone, quasi tutti turisti, sia stranieri che indonesiani. Provenivano da 21 paesi: 88 erano australiani, 38 indonesiani, 28 britannici, ma tra i caduti c’era gente di ogni parte del mondo. Oggi, la disco non c’è più – ma ce ne sono parecchie altre nel quartiere, tutt’attorno, che funzionano come prima. Al posto di quella fatidica sorge una piazzetta imperniata su monumento commemorativo che tutti, a Kuta, chiamano il Ground Zero. Qui, nel centro nevralgico della cittadina, una grande lapide reca i nomi delle vittime.

Il monumento detto 'Ground Zero' a Kuta eretto nel 2004. Foto dal Daily Mail

In seguito a quegli attentati a Bali, l‘Indonesia adottò una severa legge anti-terrorismo (2003). L’attacco venne ritenuto opera della Jemaah Islamiyah, un gruppo legato ad Al-Qaeda (al tempo sulla cresta dell’onda) e che successivamente sarebbe entrato – dicono le analisi – nella galassia dello Stato Islamico: Daesh.

Nel 2003 toccò all’isola maggiore, Giava, ed alla sua capitale, Jakarta. Obiettivo il Marriott, un hotel a 5 stelle rappresentativo degli interessi di mezzo mondo in Indonesia, ad alta frequentazione da parte di occidentali. Un’autobomba azionata da un suicida uccise 12 persone ferendone 150, tutti indonesiani tranne un olandese. La rivendicazione, anche qui, giunse da parte di Al-Qaeda.

L'attentato del 2003 al Marriott di Jakarta. Foto Zhuang Jin/Xinhua, via Reuters

Altri due anni e successe a Jimbaran, famosa località nel sud di Bali. Il 1° ottobre 2005 erano le 7 di sera, l’ora degli aperitivi: due bombe esplosero sulla spiaggia tra i warung (i chioschi di cibo all’aperto). Un’altra esplosione colpì nelle stesse ore ancora Kuta, la Rimini balinese, 30 km più a nord seguendo la costa. Complessivamente vi furono 20 morti e più di 100 feriti, e tre fra i bombaroli morirono negli attentati.
A Jimbaran il target furono le cene sulla spiaggia - le bombe erano state messe tra i tavoli dei turisti - le sere a lume di candela, col pesce grigliato e la birra gelata (oggi, con la globalizzazione, vino bianco fresco - che ormai Bali produce localmente, usando uve importate).
Infine, gli ultimi grandi attentati terroristici di quella fase buia ebbero luogo ancora a Jakarta, prima al Marriott e poi Ritz Carlton, nel luglio 2009. Questa volta si trattò di due esplosioni simultanee. Bilancio 9 morti e 50 feriti, protagonisti ancora degli attentatori suicidi. Per la polizia si trattò sempre della Jemaah Islamiyah, ritenuto l’unico gruppo in grado di montare un attentato di questa portata. Un preciso legame tra gli imputati e questa Jemaah Islamiah però non è mai stato completamente confermato. Il principale sospettato, Azahari Husin, fu ucciso in uno scontro con le forze dell’ordine nel novembre 2005, mentre il secondo sospettato, Noordin Mohammed Top, cadde sempre per mano di queste ultime nel settembre 2009.
Poi un lungo periodo di quiete durato dieci anni ed eccoci al 2018. Gli ultimi grossi attentati di cui si è avuta notizia accadono a Surabaya nel 2018, la seconda città giavanese. Oggi, una metropoli. Vanno in scena in cinque episodi distinti, come in una fiction: i primi tre sono esplosioni in chiese cristiane, il quarto avviene per errore in un appartamento a Sidoarjo, l’ultimo in una stazione di polizia sempre a Surabaya. Matrice di quegli eventi, secondo quanto fu ricostruito, il flusso che nel 2017 aveva condotto centinaia e centinaia di indonesiani a raggiungere l’ISIS in Siria per arruolarsi nelle sue file. Dopo la disfatta sul campo dello Stato Islamico, quelli che rientrarono in patria furono sottoposti da una National Agency for Combating Terrorism a un programma di de-radicalizzazione. Ma sembra che proprio alle gesta di un gruppo di questi reduci sia da ascrivere la fiammata di terrore che quell’anno scosse Surabaya.
Un’analisi complessiva di questo oscuro periodo è assai complessa, e non mi azzardo nemmeno ad ipotizzarla. Mi limito semplicemente a riportare quanto tutti sanno, con una ricostruzione sintetica delle tesi più accreditate.
Mentre dietro agli attentati a Jakarta si credette a un tentativo politico di minare la democrazia indonesiana, gli eventi di Bali, specie quello della discoteca di Kuta del 2002, sono sembrati – si era nella fase iniziale di quella tetra stagione - un gesto di puro estremismo jihadista.

Per Jakarta si parlò di obiettivi politici in qualche modo classici, di frange appunto riconducibili prima ad Al Qaeda e poi all’ISIS: l’ipotesi degli attentatori, uno stato islamico che coinvolgesse Indonesia, Malaysia e la porzione islamica delle Filippine, in particolare l’isola di Mindanao.
Ai terroristi che agirono a Bali il mondo doveva invece apparire in bianco e nero, più che mai. Il tema era quello di un permissivismo che andava colpito; di una Bali che ai loro occhi si comportava in modo davvero troppo licenzioso.

Merdeka Lodge, Denpasar. Foto Renzo Garrone

Bali che comunque, va ricordato, è l’unica isola indonesiana culturalmente differente: qui si pratica l’induismo in una forma peculiare legata alle tradizioni animiste locali, a fronte di un mare di Islam, largamente maggioritario nel resto dell’arcipelago (l’87% degli oltre 270 milioni di abitanti complessivi dell’Indonesia sono musulmani). In questo senso Kuta tuttora non dev’essere un bel vedere per un fondamentalista islamico, con le discoteche aperte tutta la notte, le ragazze in minigonna, l’alcol a fiumi. Una sottocultura edonista classica, esportata anche qui dall’occidente, ma non sgradita a schiere di individui locali. Il sud di Bali è anche oggi un magnete: i turisti a sfogarsi e spendere, gli indonesiani da tutto il paese a lavorare e guadagnare il doppio che altrove.
Come che sia, gli eventi non sono poi precipitati - nulla del genere è più accaduto. Il terrorismo, se non per gli analisti, i politologi, gli storici, non è mai stato in questo paese un tema centrale nelle vite dalla gente – se non come l’incubo di una breve stagione. L’Indonesia, pure a maggioranza islamica, non è affatto a maggioranza fondamentalista. Diversi politici indonesiani usano da tempo l’Islam come riferimento, nè più nè meno di come un Salvini usa il rosario da noi; e può preoccupare, è giusto preoccupi, poichè certo Islam non si è mai liberato dall’ossessione di convertire, di moralizzare, anche a forza. Ma questo è quanto.
Ciò non intende negare quanto grave, tetra e impattante sia stato il periodo del terrorismo indonesiano, ma esso fu circoscritto alle fiammate che ho citato – non ci fu in Indonesia un periodo paragonabile ai nostri “anni di piombo”. Oggi, a Giava come a Bali, notevole è il senso di sicurezza di cui il viaggiatore fa esperienza. La gente del posto è al 99,9% lontana da qualsiasi deriva di terrore, si occupa soprattutto delle cose semplici della vita, con lo straniero è gentile ed ospitale.

Questo accade a Giava come nelle altre isole dove mi è capitato di andare, tutte a maggioranza islamica.

Quanto ai balinesi, cosa pensassero di quella stagione di tragici eventi era scritto sulle magliette che vedevamo indossate in giro, quando visitammo l’isola qualche mese dopo la strage, e che ho ritrovato scolorite, ma indossate ancora, più di recente: le scritte sulle Tshirts dicevano Fuck terrorists. I numeri del turismo, negli anni bui, si erano ridotti al lumicino, la risorsa aveva subito un crollo verticale. E con ciò per tanta gente del posto andava in fumo la sopravvivenza, quel turismo straniero che costituiva la prima fonte non solo di valuta, ma di occupazione - il che è perfino peggio. Oggi, per fortuna, sembra sia solo il ricordo di un periodo lontano.

Al fenomeno del turismo a Bali, con la sua crisi legata agli eventi descritti in questo articolo, dedicai un capitolo di un libro sui 'paradisi turistici del sud'. Si tratta di un saggio risalente a qualche anno fa, intitolato 'Povero Outgoing' -vedi https://associazioneram.it/shop/ram/libri/libro-povero-outgoing-detail