Ho pensato a lungo se pubblicare adesso questo vecchio pezzo del 2005 che, al di là del suo (relativo) valore letterario, può essere facilmente interpretato nel solito modo: come è sporca, com’è povera l’India. Come sono sporchi loro, quanta mancanza di igiene, e via con la solita solfa. Decido di pubblicarlo lo stesso sul mio sito così come farò nel prossimo futuro con altri pezzi molto vecchi, visto che vado in India dal 1976 e un po’ di cosette le ho viste. E se anche qui come dappertutto le cose migliorano, nel subcontinente l’igiene resta una questione aperta. D'altra parte gli articoli accumulati dal sottoscritto durante i suoi viaggi in treno da queste parti sono talmente numerosi, ormai, che ho deciso di raccoglierli in un'apposita serie: si chiama Storie di Treni, appunto.

Voglio però sottolineare, a titolo di  indispensabile premessa al pezzo che segue, due aspetti principali.

Primo, gli scompartimenti di treno di cui si parla in questo raccontino sono le “sleeper class” di 15 anni fa, e da allora ad oggi un po’ d’acqua è passata sotto i ponti. Cos’è una sleeper class? E’ uno scompartimento senz’aria condizionata dove sale chi vuole, e su cui chiunque può chiederti un lembo di posto, del tuo posto, anche se tu il tuo sedile l’hai prenotato. Sono gli scompartimenti frequentati dai poveri, che in India rimangono un buon 300 milioni di persone – stima a braccio. Fino agli anni ’90 molti di questi treni andavano a carbone, l’aggravante erano i lapilli della combustione che finivano dentro i vagoni che, nell’afa, viaggiavano coi finestrini aperti anche di notte.

 I treni indiani di oggi, invece, hanno  moltissimi vagoni dignitosi ad aria condizionata - un treno indiano non di rado si compone di 40 carrozze! -  dove la situazione non è quella qui sotto descritta. Qui le cuccette, decenti, sono sempre a due e tre livelli (tier), ma nessuno entra nel tuo scompartimento prenotato, nessuno ti contende il posto, e la climatizzazione risolve l'afa eventuale e i problemi di inquinamento provenienti da fuori. Questa sistemazione costa ovviamente di più ma è completamente accettabile. Esiste inoltre un altro tipo di treno ad aria condizionata. Si tratta dello Shatabdi, simile ai nostri rapidi di un quindicennio fa. Anche le carrozze degli Shatabdi sono vecchie, senza dubbio, ma assai più pulite di quelle del mio racconto dell'agosto 2005 – no comparison whatsover col passato. Sugli Shatabdi o sui 2AC e 3AC gli scarafaggi sono una rarità, e certo degrado igienico è un problema che non si pone.

Oggi adoperano questo tipo di servizi sia la middle class indiana sia il crescente numero di turisti a spasso per l'India che (ogni tanto!) sceglie di non volare. 

 

 India del sud,'sleeper class', gennaio 2010. Foto Renzo Garrone

Secondo. Rispetto al 2005, data di questo raccontino scritto di notte in una “sleeper class”, l’India è molto, ma molto cambiata. Per fortuna, migliorata. La spazzatura dispersa nell’ambiente è divenuto il problema epocale che una volta non esisteva, ma l’igiene dei servizi alla persona – tutti i servizi, quelli in cui si imbatte il viaggiatore - è un’altra cosa. Quindi se vi capita di andare in India, o se ci state pensando, non temete: potete tranquillamente viaggiare in treno, prendere delle cuccette ad aria condizionata di notte, e dormire il sonno del giusto. Tranquilli e sicuri, anche se lo spirito di adattamento – ma in quale viaggio non è così? – resta il pezzo più importante del bagaglio. Le lenzuola sono di cotone, i cessi vetusti ma ragionevolmente frequentabili (a meno che non siate gente con la puzza sotto il naso), il cibo servito è ragionevolmente buono (ancorchè piccante). Il chicken curry degli Shatabdi, secondo chi scrive, eccellente. I treni con le cuccette si fermano abbastanza spesso, voi scendete qualche minuto e risalite, vi sgranchite, comprate qualcosa su un binario che mai più rivedrete (un fritto, due banane, una rivista). Sentite l’odore della campagna nella notte (che per fortuna spesso non è quello della defecazione a cielo aperto lungo i binari delle periferie di Bombay). Fate amicizia con altra gente che viaggia. Potete scegliere un treno notturno da Delhi a Bangalore, per esempio, salendo in una sera d’inverno a 5 gradi centigradi nella capitale per scendere dal convoglio la mattina seguente in un altro mondo, a 26 gradi. Al caldo, sotto un cielo sereno. (R.G., 2019).

 

Sul tracciato tra Shimla e Kalka,Himachal Pradesh. Il trenino, presidio Unesco, corre dai 2000 metri della antica capitrale estiva degli inglesi, alle pianure verso Delhi. Foto Renzo Garrone, ottobre 2018

Notte in treno, da Guntakal a Bombay. Agosto 2005

Perché gli scarafaggi nello scompartimento? Perché, incredibilmente, le ferrovie indiane non hanno previsto, a bordo, un sistema di raccolta della spazzatura. Neppure degli elementari cestini per tutto il vagone, che so, vicino ai bagni. La gente mangia, il cibo cade, si deposita negli anfratti sotto i sedili, nessuno pulisce, marcisce, il calore fa il resto. Le ferrovie dal canto loro forse non compiono, con la dovuta efficienza, una periodica disinfestazione dei vagoni, come invece dovrebbero…

I pasti. Riso e curry te li portano al tuo posto in vassoietti di cartoncino e di alluminio, sughi e yogurt in microsacchetti di plastica. E’ pratico e comodo, ma senza che poi a valle ci sia un efficace servizio di pulizia lo smaltimento diventa una triste storia. Una volta, ancora negli anni ’80 e parte dei ’90, i pasti delle ferrovie indiane venivano serviti su grandi foglie d’albero seccate e cucite assieme con gli stuzzicadenti (è un lavoro che fanno i tribali, gli adivasis). Il tè arrivava invece in ciotoline di terracotta, che poi venivano abbandonate, gettate dai finestrini – tanto si trattava di semplice argilla, destinata a decomporsi in fretta. Poi è arrivata la plastica.

E’ il crepuscolo e siamo a Guntakal, vasta junction ferroviaria in mezzo, proprio in mezzo, alla grande pianura del Deccan. I vagoni su cui viaggio, in corsa tra l’Andhra Pradesh e Bombay, sono quelli di una normale sleeper class (la seconda classe delle ferrovie indiane, con cuccette, ma senza aria condizionata, i finestrini aperti nella notte afosa), e le blatte saranno il tema della serata. Piccoli scarafi assortiti, ancorché di modestissime dimensioni, sbucano da ogni dove. Difficile coricarsi, e non farci caso.

Eppure, su questi treni (quello indiano è il network ferroviario più frequentato del mondo), dove transitano milioni di passeggeri ogni giorno (non è un’esagerazione) vassoietti, plastiche, cartacce, residui dei pasti di cui vieni rifornito continuamente, manco fossimo in crociera, finiscono con disinvoltura fuori dal finestrino. Nessuno si oppone, dice o fa niente in proposito.

Passa il bigliettaio, nella sua divisa elegante, giacca nera sui calzoni bianchi, i distintivi brillanti, i capelli nerissimi impomatati. Gli faccio notare gli scarafaggi e la spazzatura, e lui reagisce emotivamente. Sir, per carità! Lei ha ragione, ma faccia le sue rimostranze, most welcome! Scriva alle ferrovie (io stesso glielo avevo appena suggerito, con un mio stupido riflesso riparatore). Pingue e baffuto, l’uomo si dilegua rapido nella notte dello scompartimento.

Di lì a poco l’inserviente che mi ha portato il pasto (e che si illuminerà - un attimo solo - per la mia capacità di sostenere una conversazione elementare in hindi), alla domanda che pongo (dove buttare i rifiuti?) dapprima si stringerà nelle spalle, poi compirà un cenno verso il finestrino. Come a dire, quella è la destinazione dei vassoietti vuoti. Qui funziona così.        

Classico thali, il pasto dell'India del sud, servito su una foglia di banano: riso, puri (frittelle di farina di grano), sabji (verdure in salsa piccante), yogurt. Foto Renzo Garrone, 2010

 

Come che sia, passa a’nuttata - poichè passano, del resto, tutte le nottate. Figurati se un pugno di blatte può fermare lo scorrere inesorabile del tempo, anche quello un po’ frivolo di un pugno di turisti nella miseria del proprio scompartimento. Il tempo dell’India, poi!  Il tempo di un treno che eroicamente, nella notte, fischiando come un elefante imbizzarrito, corre verso Bombay.

Del resto, il manipolo di turisti con cui mi ritrovo, sullo stesso treno – da elogiare in blocco, in questo caso – risponde in modo agguerrito, sfoderando autan e spray che manco un ipersoap, ed ingaggiando un conflitto cruento, ad alta intensità, con le blatte. Un vero corpo a corpo destinato a durare l’intera serata, finchè spunta una placida e dolcissima luna, che splende uguale sulle campagne e le fetide periferie che il treno sferragliando indifferente attraversa, e che poi si abbassa sempre più sull’orizzonte. Sarà lei a suggerire alle parti una tregua. Benvenuta da tutti: i turisti che si rannicchiano o si allungano esausti nelle proprie cuccette, cercando di non pensare; le blatte, ritornando in massa sotto i sedili donde erano venute, per rimetter fuori solo ogni tanto la testolina dalle antenne sensibili, e ribattere in ritirata subito appena sotto osservazione. Sul terreno, ne rimarranno parecchie, del resto, spiaccicate dai sandali. Come clave.

I passeggeri indiani del vagone, dal canto loro, non fanno una piega. Al solito. I più hanno preso quel treno per percorrenze non lunghissime, scendono dopo qualche stazione, sopportano il loro solito paese incredibile che alterna abiezione e splendore, senso dell’evoluzione ed assurdità. Per dirla con John Pilger, penetrante giornalista australiano  (1999, in Hidden Agendas): “Come fa una società ricca, piena di risorse, e culturalmente saggia, con la sua democrazia e la memoria di un grande risorgimento popolare, a vivere in questo modo?”

In realtà, per capire qualcosa dell’India si tratta forse di trovare prima di tutto una propria geografia nel frenetico movimento di cui si diviene testimoni. Si tratta di mettere in fila le impressioni, di ordinarle. Partendo da un casino confuso ed indecifrabile, e crescendo in comprensione, fino a scoprirsi in grado di ricostruire i tanti eventi di cui uno è stato testimone, giorno dopo giorno, secondo un filo logico, un significato.

Dietro una bicicletta carica di banane al mercato c’è per esempio una sveglia alle 4.00 del mattino, il frutteto di qualcun altro, una piccola somma da investire, una ciclata che è ancora buio fino al mercato. Allora capisci un po’ meglio la faccia del venditore, quei baffi, quel sorriso indipendente, quel lungi, il pareo invece dei calzoni, sul selciato. Dietro una famiglia che cucina sull'asfalto metropolitano c'è l'urbanizzazione selvaggia, la fuga dalle campagne.

Bombay ribattezzata Mumbai, 2007: Una famiglia cucina i chapati per strada, al Mumbadevi Bazar, affollatissimo cuore della metropoli. Foto Renzo Garrone, 2007

Dietro un mendicante che canta sul treno, o ad uno lacero e spento sui binari, nella tragedia delle stazioni dell’immensa periferia del Deccan, ci sono i villaggi che li hanno espulsi, e miopia, crudeltà, viltà, assurdità sociali che bisogna permettersi di immaginare, perché si è in India, tanto te le racconterebbero i giornali, e comunque te le ritroverai davanti ovunque tu vada anche il giorno seguente, e quello dopo ancora – tanto vale cercar di capirci qualcosa. Ma si può cominciare a farlo solo se questi villaggi si vanno a vedere, se si fanno domande, se si prova ad entrare in partita.

Ancora una volta, l’India è prendere o lasciare: o ci vieni in vacanze tutte grandi alberghi, infiniti scadenti breakfast all’occidentale in ristoranti tristi, pulmini ed aerei, e torni a casa in 15 giorni col tuo delirante coacervo di impressioni, necessariamente inordinate, e una vertigine, che è il senso della abissale distanza da te di quel mistero che questo paese resta; o ti ci butti, via, a divorare il cibo, i mercati, a dormire sui treni e a schiattare sui local buses, nell’India del colore fetore allegria musica da film clacson anarchia bellezza davvero senza tempo, che ti carica e poi ti lascia esausto come fossi sceso da una giostra troppo veloce.

In questo secondo caso, coi giorni, coi mesi, con un po’ di tempo passato davvero in mezzo a quest’India che vibra all’impazzata, la logica che c’è dietro ti si svela come una realtà prosaica fatta di cause perlopiù precise, di sfruttamento di classe che qui è anche casta, di ignoranze, analfabetismi e difetti di pianificazione, di egoismi e viltà, di debolezze, denutrizione tara di interi cicli vitali di generazioni tra esse collegate, nonna-madre-figlia. Il tutto, naturalmente, coperto, avallato o chiamato in altro modo da coloro cui fa comodo che tutto rimanga com’è. Dando per esempio la colpa alla religione, o al colonialismo, o ai politici corrotti.

Ognuno però ha la sua dimensione. Si dorme, ma c’è chi veglia. Nonostante contraddizioni ben più serie affliggano sia le stazioni di questa tratta che i nostri stessi vagoni, il poliziotto che resta di guardia al nostro scompartimento per la notte, fino a Sholapur, mi fa notare che c’è una multa per chi fuma in treno, di ben 250 rupie. Una ragazza occidentale poco più in là sta infatti preparandosi una sigaretta col tabacco, e lui coglie l’occasione per rimarcarlo. Non si fa. Aggiungendo però subito, con la tipica dolcezza e condiscendenza indiane, che per lui la tipa, se vuole, può fumare nelle latrine dove nessuno (tanto meno lui) le dirà niente. Ma per cortesia, e per rispetto della forma, è qui a parlarne prima con me. Mi fa capire, glielo riferisci? Dato che sono occidentale anch’io. E soprattutto, che sono un uomo.